I n   p r o g r e s s

 


1
  fra  un incontro  e  l’altro le  parole non  dette
erano rimaste lì insieme alle tracce delle suole vicino
alla  pozzanghera  specchiante  il  cielo
righe parallele a ricordare l’infinito
(senza  punto nè virgola)


(1 . 11 . 09 – 19.26 – continua)

2

un richiamo dentro esprime il futuro nel presente

ascolto

è tempo di…

È tempo di mettersi in ascolto.
È tempo di fare silenzio dentro di se.
È tempo di essere mobili e leggeri,
di alleggerirsi per mettersi in cammino.
È tempo di convivere con le macerie
E l’orrore, per trovare un senso.
Tra non molto, anche i mediocri lo
diranno.
Ma io non parlo di strade più impervie,
di impegni più rischiosi,
di atti meditati in solitudine.
L’unica morale possibile
È quella che puoi trovare,
giorno per giorno, nel tuo luogo
aperto-appartato.
Che senso ha se solo tu ti salvi.
Bisogna poter contemplare,
ma essere anche in viaggio.
Bisogna essere attenti,
mobili, spregiudicati e ispirati.
Un nomadismo,
una condizione, un’avventura,
un processo di liberazione,
una fatica, un dolore,
per comunicare tra le macerie.
Bisogna usare tutti i mezzi disponibili,
per trovare la morale profonda
della propria arte.
Luoghi visibili
E luoghi invisibili,
luoghi reali
e luoghi immaginari
popoleranno il nostro cammino.
Ma la merce è la merce,
e la sua legge sarà
sempre pronta a cancellare
il lavoro di
chi ha trovato radici e
guarda lontano.
Il passato e il futuro
non esistono nell’eterno presente
del consumo.
Questo è uno degli orrori,
con il quale da tempo conviviamo e al quale non abbiamo ancora
dato una risposta adeguata.
Bisogna liberarsi dell’oppressione
E riconciliarsi con il mistero.
Due sono le strade da percorrere,
due sono le forze da far coesistere.
La politica da sola è cieca.
Il mistero, che è muto,
da solo diventa sordo.
Un’arte clandestina
per mantenersi aperti,
essere in viaggio,
ma lasciare tracce,
edificare luoghi,
unirsi a viaggiatori inquieti.
E se a qualcuno verrà in mente,
un giorno, di fare la mappa
di questo itinerario;
di ripercorrere i luoghi,
di esaminare le tracce,
mi auguro che sarà solo
per trovare un nuovo inizio.
È tempo che l’arte
Trovi altre forme
Per comunicare in un universo
In cui tutto è comunicazione.
È tempo che esca dal tempo
astratto del mercato,
per ricostruire
il tempo umano dell’espressione
necessaria.
Una stalla può diventare
Un tempio e
Restare magnificamente una stalla.
Né un Dio, né un’idea,
potranno salvarci
ma solo una relazione vitale.
Ci vuole un altro sguardo
Per dare senso a ciò
Che barbaramente muore ogni giorno
Omologandosi.
E come dice un maestro:
“tutto ricordare e tutto dimenticare”.

Antonio Neiwiller, Maggio 1993
in Movimento Zoè
diventa un post intermittente
(2 . 11 . o9 – 11.25 – continua)


I n   p r o g r e s s



1

  fra  un incontro  e  l’altro le  parole non  dette
erano rimaste lì insieme alle tracce delle suole vicino
alla  pozzanghera  specchiante  il  cielo
righe parallele a ricordare l’infinito

(senza  punto nè virgola)


(1 . 11 . 09 – 19.26 – continua)

2

un richiamo dentro esprime il futuro nel presente

ascolto

hé è tempo di…
 
È tempo di mettersi in ascolto.
È tempo di fare silenzio dentro di se.
È tempo di essere mobili e leggeri,
di alleggerirsi per mettersi in cammino.
È tempo di convivere con le macerie
E l’orrore, per trovare un senso.
Tra non molto, anche i mediocri lo
diranno.
Ma io non parlo di strade più impervie,
di impegni più rischiosi,
di atti meditati in solitudine.
L’unica morale possibile
È quella che puoi trovare,
giorno per giorno, nel tuo luogo
aperto-appartato.
Che senso ha se solo tu ti salvi.
Bisogna poter contemplare,
ma essere anche in viaggio.
Bisogna essere attenti,
mobili, spregiudicati e ispirati.
Un nomadismo,
una condizione, un’avventura,
un processo di liberazione,
una fatica, un dolore,
per comunicare tra le macerie.
Bisogna usare tutti i mezzi disponibili,
per trovare la morale profonda
della propria arte.
Luoghi visibili
E luoghi invisibili,
luoghi reali
e luoghi immaginari
popoleranno il nostro cammino.
Ma la merce è la merce,
e la sua legge sarà
sempre pronta a cancellare
il lavoro di
chi ha trovato radici e
guarda lontano.
Il passato e il futuro
non esistono nell’eterno presente
del consumo.
Questo è uno degli orrori,
con il quale da tempo conviviamo e al quale non abbiamo ancora
dato una risposta adeguata.
Bisogna liberarsi dell’oppressione
E riconciliarsi con il mistero.
Due sono le strade da percorrere,
due sono le forze da far coesistere.
La politica da sola è cieca.
Il mistero, che è muto,
da solo diventa sordo.
Un’arte clandestina
per mantenersi aperti,
essere in viaggio,
ma lasciare tracce,
edificare luoghi,
unirsi a viaggiatori inquieti.
E se a qualcuno verrà in mente,
un giorno, di fare la mappa
di questo itinerario;
di ripercorrere i luoghi,
di esaminare le tracce,
mi auguro che sarà solo
per trovare un nuovo inizio.
È tempo che l’arte
Trovi altre forme
Per comunicare in un universo
In cui tutto è comunicazione.
È tempo che esca dal tempo
astratto del mercato,
per ricostruire
il tempo umano dell’espressione
necessaria.
Una stalla può diventare
Un tempio e
Restare magnificamente una stalla.
Né un Dio, né un’idea,
potranno salvarci
ma solo una relazione vitale.
Ci vuole un altro sguardo
Per dare senso a ciò
Che barbaramente muore ogni giorno
Omologandosi.
E come dice un maestro:
"tutto ricordare e tutto dimenticare".

 
Antonio Neiwiller, Maggio 1993
 in Movimento Zoè
 

diventa un post intermittente
(2 . 11 . o9 – 11.25 – continua)


Au – Revoir

Tracce dentro le scarpe, mappe misteriose, da decifrare.
  Sulle suole cresce l’erba, radicata di lacrime e sorrisi.

La commozione concima forme autunnali sontuose di ruggine ed oro.
Io, sto nella casa come sul prato. Come se fossi un fiore, fra tutti gli altri vicini e lontani


Parole lasciano i propri petali al Vento, come aquiloni- farfalla senza filo.

(29  e 1/2 – continua )





"L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe."
Sofocle, Edipo re






Le carceri scoppiano
c l i c k
e
c l i c k








Grazie a:
Galdo  –  Libera utopia
 Egidio Morici –  500firme.it)

per la segnalAzione.








( 1.10 – c o n t i n u a )

C o m p a r t i r

"Desde Chile Gracias por compartir tanta belleza"
Marlene Sandoval
 

Una partenza gioios(a PARTIR)…condivisa (COM) nello spazio-tempo indiviso (passato presente futuro).

La Terra accoglie l’Ombra lunga.
Riconosce rami spogli. Nuda.
e, di già, dei Germogli il Sogno.

( 28 – continua )


Quel sangue del Sud versato per il Paese

di ROBERTO SAVIANO


Repubblica 18 settembre 2009

e    Q u i 

Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l’ennesima strage di soldati non l’accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l’Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c’è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano.

Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d’origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un’appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d’origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all’ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d’Italia, versano all’intero paese.

Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l’origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L’esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.


Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un’auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.

E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell’aeroporto di Kabul, all’altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell’ultimo esercito che provò ad occupare quell’impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un’autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E’ anche altro. Quell’altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l’afgano, l’hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L’hashish e prima ancora l’eroina e oggi di nuovo l’eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l’esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.

E’ anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l’Afganistan una provincia dell’Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L’eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell’eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L’eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell’esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d’Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell’altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani.

E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un’altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile.

Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un’autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace".

Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell’Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell’esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell’attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia.

Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.


Quel sangue del Sud versato per il Paese

di ROBERTO SAVIANO


Repubblica 18 settembre 2009

e    Q u i 

Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l’ennesima strage di soldati non l’accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l’Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c’è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano.

Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d’origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un’appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d’origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all’ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d’Italia, versano all’intero paese.

Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l’origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L’esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.


Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un’auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.

E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell’aeroporto di Kabul, all’altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell’ultimo esercito che provò ad occupare quell’impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un’autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E’ anche altro. Quell’altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l’afgano, l’hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L’hashish e prima ancora l’eroina e oggi di nuovo l’eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l’esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.

E’ anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l’Afganistan una provincia dell’Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L’eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell’eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L’eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell’esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d’Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell’altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani.

E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un’altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile.

Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un’autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace".

Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell’Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell’esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell’attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia.

Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.

G r a t i t u d i n e

©lab harambèe – kaapi carla barnabei

Sarzana & Altrove, Agosto 2009

s e n z a     t i t o l o

Se mi metto a contare sbaglio.  E,l’errore mi insegna,  dietro alla parola s’identifica nello sbaglio una colpa.  Proprio lì dentro, ed in fondo, alla colpa c’è la scoperta.  Una scoperta che, forse da tempo lungo e sottile, attende. Una scoperta lo sa di essere un po’ defilata,  il suo nascondersi si rivela.  Rivela di per sè. Trasmette, insegna sempre.

Ogni cosa esistente, visibile ed invisibile, ha in sè una rivelazione, in sè e per sè, collegata da una rete energetetica vibrante, di suoni e colori, luminosa/ombrosa, di ragione e senza ragione.  Incantata. 

Incanto quotidiano. Semplicità speciale, da riconoscere, attende.

Le paroe non bastano.  Anzi, eccedono, nella loro precarietà…!

Una pianta di zucchine, fra foglie fiori e frutti, convive con altre piante, intorno. Condividono la terra e l’aria. Sotto al cielo, in profondità variabile.

Certi le chiamano erbacce, erbe da estirpare (soffocano, dicono, ciò che deve crescere per diventare raccolto, da prendere). 

Invece, chissà come si chiamano le piante, fra loro .

Mi chiedo. E, se fossimo noi le erbacce, nell’universo? Oppure, non esistono male erbe, solo erbe diverse. Impreviste  forme.  Nessuna esclusione. Insieme, unita diversità.

Noi umani accentriamo al nostro lnguaggio azioni e classsificazioni,  come fosse l’unico ed il pricipale.

D’accordo, lo farò. Nessuna fuga?

Ma quale instabilità o variabilità nel confine che distingue me dall’altro/i, quale precarietà persino nel noi (quando distingue e divide amici/nemici) !

Mi hanno insegnato “parla sempre in prima persona per assumerti la responsabilità…!”.  Io, me ne accorgo, a volte, di non essere mai sola, anche se mi sembra di esserlo ;-). Anche se non si vede qualcuno!

Se mi metto a contare chi c’è, cosa vedo?

Non  conterò più. Ascolterò. Dirò, so che ci siete, invisibili.

Sento la musica. I passi soffici, le tracce del cuore, le stelle negli occhi. Gli arcobaleni, i segni sotto le foglie, nello spazio,  dentro.

Le piume di esseri che non hanno certo il nome da noi preteso, indefinibili. E gli sguardi, attenti, curiosi. Eccolo, il teatro invisibile ! Accettare il limite rende lo spettacolo vero, illuminante. Ce lo hanno insegnato, lo abbiamo dimenticato, il potere o la forza del teatro. La sua guarigione dell’im-possibile.

Un amore incondizionato, che guida,  atTraverso una precaria e variabile distinzione (di forma e di sapere) là.  Là,  dove  nessuna distinzione separa ed avvalora.

Grazie.

  © lab harambè - kaapi carla barnabei

 Findhorn, Cluny College, agosto 2009

w i t h o u t 

p l a c e 

Appunti scritti al volo, in un afoso inizio di pomeriggio

,nel perdurare di un  viaggio  (i n – f i n i  t o)  a Findhorn (grazie e grazie).

l o v e 

k. e K.




© lab harambè – kaapi carla barnabei

Findhorn, Cluny College, agosto 2009

w i t h o u t

( 2 2 - c o n t i n u a )



Silenzio nel Bosco



 
©lab  Harambèe – kaapi carla barnabe
S.Martino & Altrove,  31 Luglio 2009

A i   F i o r i

Non ho più scritto qui, per alcune settimane. Personale è il tempo nella sua quantità e valore.
Scrivere. Cercare di farlo secondo delle priorità che rispettino un senso di vita, non sempre è facile, per me.  Mi sono accorta di dedicare più tempo a ciò che  disperde tempo ed energia  rispetto ad  un intento, piuttosto che accentrami lì…Il problema era che il mio intento non fosse ben definito?

Sì, appunto. Su questo Intento di vita, che comunque è vivo e si definisce, se  pongo questa chiarezza come   una priorità, sto lavorando.
E’ un lavoro che non si esprime attraverso negazioni (scelgo questo o quello? Prima o dopo?), ma con l’ascolto. Appena possibile e poco alla volta testimonierò qui trascrivendo alcune parti del diario quotidiano ( interessa a qualcuno?) combinando con citazioni dei riferimenti incontrati (o  che mi hanno incontrato).

Ne potrebbe sorgere una distanza fra i riferimenti, le voci ascoltate, e quello che (mi) accade: Si tratta di variabili. In questo spazio ci si accorge della distanza che è anche avvicinamento di qualcos’altro (di  non previsto magari…)    😉

Ora, incomincio con questa piccola premessa e con un riferimento. Tra i riferimenti nei quali sto vivendo c’è quello a Bobby, alla (sua) visione. Perchè tra parentesi ( ) ?
La Visione arriva non è nostra, ci coglie. Possiamo girarci dall’altra parte, se non lo faciamo  non  perdiamo e non guadagnamo.
Cambia la vita, che comunque è sempre come tale in cambiamento,  non ce ne accorgiamo?

Mi hanno detto parla sempre al singolare, da te. Allora, ok.
Non mi  ero accorta di non ascoltare, cercavo chi mi ascoltasse con bisogno ossessivo, mi dimenticavo di me e  di te (l’altro). Ho cercato di ascoltare, non ho avuto coraggio, e, determinazione, a sufficienza… Ero confusa. Poi, toccato il fondo, arrendersi (surrender) nell’ascolto a poco a poco.

Mi sono sentita sola. E’ stato bellissimo dopo essere sembrato una perdita crudele.  Non  lo era e non lo è. Anzi, credo indispensabile per stare insieme accettare di stare da soli, vivere la solitudine. Anche questo stato cambia, anche se io inizialmente non l’avevo capito.
Differenza sottile. Su questo percorso testimonierò, ma è ancora bambina,  giovane la mia consapevolezza!

Sono ben piccola creatura di fronte al mistero del cielo stellato e da quel buio ogni stella parlante mi chiama.
Sono vecchia nelle tracce sul palmo della mano profonde, e segno nell’aria un cerchio: diventa  spirale a  radicare qualcosa che mi chiede di rimettere rancori verso me stessa, e intorno,  ed ogni illusione di separazione. Non vorrei essere enigmatica  (continua).
Non si può spiegare, a me non lo hanno spiegato. E’ come il fulmine. Basta non scappare via e accade da sé (se non accade, o non tce ne siamo acorti, inaltro modo  accadrà :-).

Tornando a Bobby, questa parte (1) di una delle ultime interviste (ne rilascia pochissime)  segue alla prima parte (1)  q u i 

Seguiranno altri riferimeti, sia a Bobby sia a diverse espressioni della relazione fra Intento e Funzione (Fonti e Fontane).


Oggi, martedì 1° Settembre, questo post è cambiato. infatti, ho appena pubblicato testo e foto corrispondenti al link nell’altro blog (lab harambée, appena riaperto e con lavori in corso).

Comunque, il collegamento del link (Qui- c l i c l) è rimasto, sotto a queste parole … 😉

Q u i

(click)
(31 –  c o n t i n u a)


“Ciò che deve accadere, accade.”



Il Viaggio ce l’hai addosso, come una pelle .

S’agita al vento e  freme quando un pensiero finalmente se ne va. Alllora, non c’è bisogno di niente,o quasi.

Non hai certezzze. Non sono neanche tue le storie che ti attraversano come ruscelli o fiumi. Torrenti in piena e scrosci di pioggia che susussurreranno  saranno un grido,  ma non per farsi sentire.

Così, come sono arrivate se ne andranno, le storie  raccontate e la compagnia.
Eppure, non sei mai sola, essendolo.  Rechi memoria e radice. Prepari il bagaglio e lo disfi. Allacci le scarpe e vai scalza. A toccare la terra, l’aria. A sprofondare, a respirare.

Senza più parole. Solo quelle indispensabili, restano. Per un ascolto che non divida chi ascolta e chi è ascoltato, per ascoltare…

Lascia accadere. Accade, accadrà.  Non sei tu le storie, la musica, il volo. E’ il Viaggio.
E, non c’è neppure bisogno che ti sposti, a volte. 😉

*  citazione: C.S.I. – “Accade” in “Tabula rasa elettrificata (mi sembra..)

** immagini dalla Rete, disegno-sgiribizzo di stasera (ho ri-cominciato
gli sgiribizzi… Hmm.)

(6209 – c o n t i n u a)